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Intervista su "Il Giornale di Vicenza", 17 Gennaio 2010.  

Il libro "Il suicidio: la guerra contro se stessi" è disponibile in ebook su Amazon

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IL GIORNALE DI VICENZA

Domenica 17 Gennaio 2010      

«La prevenzione del suicidio non interessa gli specialisti, ma tutti noi: quando accade costringe chi resta a interrogarsi sulla qualità della sua vita»             

L’INTERVISTA. Mario Polito, psicologo e pedagogista, affronta un argomento tabù

«La guerra contro di sé uccide più di ogni altra. Si vince, ma non da soli»

«Questa è l’epoca delle passioni tristi, ma si può “respirare speranza” se si decide di trovare tempo e parole autentiche per vivere relazioni»

Di Cinzia Zuccon Morgani

Il picco di suicidi si registra trai 45 e i 55 anni e interessa gli uomini 4 volte più delle donne

La notizia di questi fattiva data, ma senza semplificare le cause o insistere sui metodi

Più le società sono individualiste, competitive, più si rompe il tessuto sociale e il rischio cresce

C'è una guerra che fa più vittime di tutti i conflitti messi insieme: è quella contro se stessi. L'ultimo episodio in ordine di tempo nel Vicentino è stato il tentativo di suicidio di un giovane di Montecchio Maggiore salvato in extremis dai vigili. Nel Veronese questa settimana una coppia ha abbandonato la vita e le rispettive famiglie. In Lombardia l'assessore regionale alla famiglia ha parlato di massima allerta per i giovanissimi. Solo alcuni casi, senza contare che lo scorso anno nelle carceri si sono suicidate 70 persone: un record che comprende anche vicentini. Relegato a “fatto privato”: non se ne parla, non ci si interroga, eppure «La prevenzione al suicidio non interessa solo gli specialisti, ma tutti noi». Lo sostiene Mario Polito, psicologo, psicoterapeuta e pedagogista che proprio per questo ha scritto un libro frutto di anni di ricerche ed esperienza professionale “Suicidio: la guerra contro se stessi, cause e prevenzione” (ed. libreriauniversitaria.it in formato cartaceo, reperibile anche sul Amazon in formato ebook).

È un libro di speranza e di coraggio, uniche armi per arginare un dramma di costante attualità. «Nel mondo - spiega Polito - ogni anno un milione di persone si tolgono la vita, più di quante ne muoiano nelle guerre. In Italia, che pure è tra i paesi europei con meno suicidi, ogni giorno dieci persone si suicidano e il numero di coloro che tentano di farlo è da dieci a venti volte maggiore».

Anche questo è indicativo, visto che lei sottolinea che è proprio il tasso di suicidio a indicare quanto sia malata una società.

Freud diceva che il suicidio è una mancata aggressione verso gli altri, un omicidio mancato, retroflesso. Un omicidio timido, diceva Cesare Pavese. Il suicidio induce quanti restano a chiarire le loro gerarchie di valori, li interroga sulla qualità della loro esistenza: non è un fatto personale, è una domanda alla società. Nel mondo si verifica un suicidio ogni quaranta secondi e un tentativo ogni tre secondi, e in Italia il rapporto tra suicidi e omicidi è di sette a uno, ma nessuno  lo dice.

C'è però un rischio di emulazione che giustifica il parlarne poco.

Quello che si chiama “effetto Werther”, dalle conseguenze che provocò la pubblicazione dal romanzo di Goethe, ha una sua ragione d'essere. Ma la notizia va data senza semplificare le cause o insistere sui metodi. È rischioso, ad esempio, liquidare come un episodio estremo quello dello studente che si butta dalla finestra per un brutto voto, viceversa è bene interrogarsi su come sia la nostra scuola offrendo così elementi di comprensione e speranza a chi vive lo stesso disagio.

Sono episodi accaduti anche di recente, ed è proprio tempo di pagelle. Lei lavora moltissimo proprio con gli studenti. Cosa ci dicono questi fatti, cosa dovrebbe cambiare?

Al messaggio chiaro di una meritata insufficienza la scuola dovrebbe sempre affiancarne con altrettante chiarezza un altro: “Non sei solo, ti offro gli strumenti per battermi al tuo fianco affinché, se dai del tuo meglio, quella brutta insufficienza diventi un dieci. E mi batto per far comunque emergere i tuoi talenti perché una società non è fatta solo per i laureati alla Normale di Pisa”. Se si percepisce questo non si possono verificare drammi. E poi condivido il pensiero di Paolo Crepet che vorrebbe una scuola in cui ci sia il tempo per creare le relazioni: sono quelle che ci salvano. Ma per fare questo bisognerebbe investire sulla scuola.

Colpiscono molto i suicidi dei giovani, ma qual è la fascia  d'età a maggiore rischio? Contrariamente a quello che si potrebbe pensare il picco di suicidi si registra tra i 45 e i 55 anni, e interessa quattro volte più gli uomini delle donne che però commettono più tentativi di suicidio.

Una malattia, un lutto, una ferita d'amore, difficoltà economiche o insuccessi sul lavoro o a scuola: il suicidio è sempre ricondotto ad una causa specifica. Forse per questo il peso grava su un cerchia ristretta. Queste sono cause “trigger”, cause “grilletto”, mala pistola è sempre stata caricata molto tempo prima dalla mancanza di un progetto di vita o dal fallimento di un progetto e dall'incapacità di trovare elementi di speranza. Il problema è che la maggior parte di noi ha rapporti superficiali, così non puoi leggere in faccia la disperazione. C'è anche la paura di farsi travolgere dai problemi dell'altro, ma dobbiamo anche imparare a farci carico della sofferenza altrui e prima ancora il problema è il dialogo, quello vero, anche in famiglia.

Nell'adolescenza in particolare il dialogo è un’impresa. Quali sono i segnali che debbono allarmare?

Sono tanti. Tra questi il mutismo, non vedersi più con gli amici, non voler andare ascuo-la, il rifiuto verso il cibo o coltivare un atteggiamento menefreghista verso tutto.

Ci sono adulti che non vedono vie d'uscita e c'è chi si sente già morto dentro o magari ha già tentato di farla finita. Come si fa a offrire speranza?

Trovando parole autentiche e tempo per dire: “Raccontami, voglio ascoltarti, comunicarti  il mio gusto per la vita e aiutarti a trovare il tuo”. “Quanto bene ti vuoi? Quante cose sai di te? Si può progettare un futuro, ripartiamo dal buono che dicerto c'è, comincia dal tornare a fare ciò che ti dava anche una piccola gioia, recupera il gusto del presente”. Se invece si è troppo coinvolti o preoccupati meglio farsi aiutare da un esperto. Ma è sempre nella comunicazione che ritroviamo il benessere, che possiamo alleggerire il peso dei problemi e trovare idee che accendano la speranza.

La speranza bisogna “respirarla”, non sentirla a parole. Ma viviamo in un contesto strutturato per la speranza?

“Respirare” la speranza è proprio il concetto giusto e ciascuno di noi può fare qualcosa. È l'epoca delle passioni tristi, come diceva lo psicanalista argentino Miguel Benasayag. Non c'è entusiasmo, pensiamo che il futuro sarà peggiore del presente. Nelle società occidentali stiamo allevando persone che tendono alla sofferenza: il nostro progetto è sempre altrove o comunque inferiore alle aspettative che la società ei suoi consumi creano.

È più la disperazione perla mancanza di mezzi e prospettive o la solitudine a causare suicidi?

I suicidi accadono con più frequenza non nelle società povere, ma nelle società anomiche,  senza regole; più sono individualiste, competitive, narcisistiche più si rompe il tessuto sociale maggiore sarà il rischio. Già Freud notava che durante i terremoti o i disastri naturali diminuivano nevrosi e psicosi perché si creava più solidarietà, più qualità delle relazioni.

E forse, in un contesto che concede poco alle nostre debolezze, sarebbe importante anche accettare che ci sono momenti in cui il dolore ci deve attraversare e accettare la rabbia che si sente per poter guardare avanti.

Assolutamente sì. Ricordo che in una scuola superiore in Svizzera un professore riuscì a organizzare per gli studenti un' aula  degli sfoghi: si poteva scrivere anche sui muri, tirare pugni e calci a sorta di punch-ball. Rabbia, sfiducia, dolore: fanno parte della vita, ma se si reagisce si possono cogliere anche nuove e migliori opportunità. Ad un mio paziente recentemente ho ricordato che Henry Ford è fallito 5 volte prima di creare l'impero delle auto. Nello zaino per il nostro cammino dobbiamo mettere il necessario per affrontare le avversità. Oggi, anche in quello dei nostri ragazzi, infiliamo magari opportunità, aspettative, ma poco equipaggiamento esistenziale: pochi valori e scarsi strumenti per reagire alle delusioni.